Con l’esplosione della digital communication e la concezione di un mercato relazionale, ci troviamo a parlare continuamente di tecniche di comunicazione. Il che è legittimo, visto anche e soprattutto la costellazione di community e micro community a cui arrivare, ciascuna con le sue peculiarità.

In tutto questo processo e dibattito sul Come, non di frequente mi capita di sentir parlare del Cosa. Mi spiego meglio: avere la miglior strategia comunicativa ha sì un valore intrinseco, che si perde però se non associato a un Cosa di valore. E questo Cosa è inevitabilmente il prodotto o il servizio che offriamo all’interlocutore.

Usare come influencer il prodotto/servizio che proponiamo è un obbligo più che una scelta. E visto che se ne parla poco, oggi lo facciamo insieme.

Nasce prima la community o il prodotto?

Il processo di formazione di un nuovo servizio/prodotto per il mercato non è certo univoca, quanto piuttosto circostanziale. Non di rado, specialmente oggi dove le metriche dei social danno adito a ricerche quali-quantitative per strategie sempre più basate sui dati, c’è la possibilità di creare un business rispondendo direttamente ad una domanda sopita, rilevata magari anche tra le proprie cerchie di appartenenza.

Come per un Influencer la comunità è centrale per la fondazione della sua reputation, allo stesso modo un prodotto non adottato o riferito ad un gruppo target definito, farà molta fatica ad emergere e soprattutto a svilupparsi. Quello che innalza la figura dell’influencer è anche la capacità di cavalcare, ancor prima di dettare, un trend. L’aumentare il proprio status in una comunità di pari è un sostanziale sviluppo del proprio ruolo. Dopo certi livelli di affermazione l’influencer può anche passare dal guidare una comunità a creare una propria, ma tutto passa da un momento iniziale di condivisione e confronto. Avere un prodotto/servizio senza una base forte, non da adito a commenti, idee, magari critiche, che sono il necessario per creare un cammino di crescita piuttosto che tirare un sasso nello stagno.

Saper leggere trend e bisogni, anche inerenti ad una cerchia di cui già noi facciamo parte, dà modo di creare prima che un prodotto una soluzione. Fatto questo, la relazione brand-user mette in moto un processo di condivisione in cui: il brand ha presa sullo user, perchè il suo prodotto ha migliorato la vita di chi aveva un problema; l’influsso positivo del primo approccio, unito alle informazioni successive che si possono acquisire, permettono lo sviluppo di prodotti/servizi sempre migliori, risolutivi di altri problemi e quindi influenti sul mercato che ne fa richiesta. Non ci dimentichiamo che buzz e word of mouth di ambassador spontanei ha sempre un bel peso in termini di conversione. Indurlo con il prodotto invece che con una figura terza è un vero market killer.

Comunità artificiale, vendite reali

Si potrebbe obiettare comunque che l’aspetto valoriale di un brand, la gestione dei rapporti sui social e il rapporto con chiunque porta interesse verso il marchio, non è un qualcosa di strettamente inerente a ciò che offriamo in senso stretto. Ma d’altra parte è difficile sostenere una vita aziendale senza vendite. Per questo essere campioni nella parte comunicativo-relazionale, senza però esprime i valori e la qualità nel prodotto/servizio che andiamo a comunicare, potrebbe rivelarsi uno sforzo fine a sé stesso.

Come la pratica di acquistare fan e like a pagamento per gonfiare i numeri e mostrarsi influencer ma non esserlo, anche una mirabolante e folta community attratta dalla comunicazione e non dal prodotto crea un po’ di effetto fake. Fin quando si comunica come complemento, come mezzo per trasmettere il prodotto è un conto, ma crearsi una super reputazione con una fan base che nemmeno conosce davvero l’attività reale che svolgiamo, è un bel autogol.

Il castello di carte è bello, ma vola via con un soffio di vento

Ultimo, ma non per importanza, è la valutazione di un aspetto che va oltre al mero ambito commerciale, ossia la fiducia. Si perché parole come trasparenza e coerenza non sono attribuibili sono alle persone. Ma andiamo per ordine.

Un grande dibattito che va avanti da tempo è tornato attuale anche di recente con il caso  Fedez, Satta, Belen, Tatangelo risiede nel palesare quando un post sui social di un influencer è sponsorizzato da un brand.

Il dibattito risiede sull’efficacia che un #adv o #sponsored aggiunto al post potrebbe togliere. Mancherebbe la naturalezza dello spot, che facendo leva sulla fiducia nel rapporto tra follower e influencer vuole essere trasportata sul prodotto che si promuove di nascosto. Più che influencer marketing questa forse è una presa di giro. Far qualcosa per soldi o per volontà sono due cose nettamente diverse. Questo non vuol dire necessariamente svendersi, data la possibilità di scegliere con cui lavorare. Per cui, rispettare le regole e comunicare ai propri follower quando si è in una collaborazione, è simbolo di trasparenza. Senza contare che il popolo del web è sempre più consapevole delle implicazioni economiche di una certa posizione o popolarità.

Farla sotto il naso a chi conosce il meccanismo non dimostra altro se non la parziale comprensione della forte arma quale l’influencer marketing. Avere fiducia in un soggetto deriva anche nel credere in quelle che sono e sono state le sue scelte: fin quando la collaborazione con un brand avviene perché comunque l’influencer crede e condivide quelle che sono le qualità e valori dello stesso, difficilmente un hashtag sarà ago della bilancia. Piuttosto lo spingere prodotti di bassa qualità in cui non si crede, oltre che fornire un boost solo momentaneo, farà perdere all’influencer sul lungo periodo la sua credibilità, e quindi la sua posizione.

Un prodotto solido, utile, che da quello che promette, diventa un qualcosa su cui contare con certezza. Una soluzione valida ad un problema, ancor prima che una transazione economica. Coerenza e trasparenza per formare l’imprescindibile fiducia. Creare una struttura colorata e d’impatto ma senza basi solide, unisce alla fatica del creare un bel castello di carte, alla fragilità di poter essere spazzati via da un primo soffio di vento.